Educare alla bellezza. Arte che costruisce la comunità

Voglio iniziare questa relazione citando alcuni brevi brani tratti dal libro Stato di grazia di Laura Cionci, artista da poco scomparsa, menzionati anche da Christian Caliandro nel suo articolo su Artribune “L’arte non è una questione da museo”. 

“Da una parte la grande crisi globale rende il superfluo ancora più superfluo, il casino mediatico genera mostri giganti che durano il tempo di un respiro e le persone non hanno più lo stimolo all’attenzione e alla riflessione. […] Mentre tutto questo si fa enorme, chi ha la sensibilità di percepire il pericolo dovrebbe creare una finestra accessibile a tutti di riposo e riflessione e, oltre a creare questo spazio, educare il pubblico al suo utilizzo.” Crediamo nella ricerca, in quella ricerca che prende un’intera vita, che diventa appunto una missione per l’artista; crediamo nella sana visione di un lavoro che serve allo sviluppo collettivo; crediamo nell’artista che genera sinergie, che fa rete e che prende forza dalle esperienze dei territori, dalle differenti culture, dalle mille forme di immaginazione che ha ogni essere umano. L’artista è un veicolo che rende visibile l’immaginario collettivo: nel migliore dei casi un immaginario futuro, una predizione, una spinta verso qualcosa di migliore” (Laura Cionci, Stato di grazia, Postmedia Books, Milano 2020, pp. 17-18 – pag. 23).

L’artista, e non solo l’artista ma chiunque operi per l’arte, la cultura e la bellezza, rende visibili i nostri immaginari, plasma visioni, realizza quanto di sepolto è insito in ognuno di noi, genera i luoghi che distrattamente abbiamo dimenticato, rintesse legami sfrangiati, costruisce piccole radici di comunità, educa (e non insegna), a volte impone spazi in cui dobbiamo – e possiamo – necessariamente fermarci e sostare. Non un lavoro ma la missione della vita, i cui frutti potranno essere raccolti dai figli dei nostri figli se ora, in questo momento, noi di questa attuale generazione piantiamo i semi, facciamo scendere gocce, continuiamo a delineare strade e sorvolarle con ponti e aquiloni (e come affermava Giancarlo De Carlo, “l’Architettura-l’Arte ha il potere di generare aquiloni in cielo che si muovono ma non scendono mai a terra. Rimangono in cielo e diventano punti di riferimento per stimolare l’immaginazione, il confronto e alimentare le opinioni.”)

Dunque. Educare alla bellezza e costruire comunità attraverso l’arte. Dopo diverse sperimentazioni e percorsi diversi ho compreso che io, operatrice culturale così come mi definisco, potevo realizzare questa missione attraverso l’unico strumento che trovavo ben piantato nel mio profondo essere, l’arte. Unica la missione ma tante e differenti le strade per realizzarla. Ogni strada che ho attraversato è stata un percorso di riflessione, di pensiero che diveniva poi azione e accadimento: nasceva da essere studio e parole per trasformarsi in opera che interagisce e cambia la realtà, quella delle persone con cui ho vissuto ed interagito ma prima di tutto la mia. E mi sono accorta che l’arte appariva, dunque, come il nuovo strumento di cui parla Umberto Eco nel suo scritto Società liquida (pubblicato nel 2015 nella rubrica de L’Espresso Le bustine di Minerva) riprendendol’idea di modernità o società liquida formulata da Zygmunt Bauman in Liquid Modernity del 2000, poi approfondita nella pubblicazione Stato di crisi di Bauman e Carlo Bordoni. Eco evidenzia come la società liquida inizi a delinearsi con il postmodernismo, con la crisi delle grandi narrazioni che ritenevano di poter sovrapporre al mondo un modello di ordine. Da ciò la crisi dello Stato, la crisi delle ideologie, dei partiti e di una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni. Emerge un individualismo sfrenato, un soggettivismo che dissolve tutto in una sorta di liquidità: le uniche soluzioni per l’individuo sono l’apparire a tutti i costi, l’apparire come valore e un consumismo che rende subito obsoleto ogni oggetto, passando da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo. Che cosa si potrà sostituire a questa liquefazione? C’è un modo per sopravvivere alla liquidità? – si domanda Eco. Forse rendersi conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. 

L’artista, dunque, nel tratteggiare paesaggi inevitabili, si accorge improvvisamente di credere e sperimentare, come risposta e superamento dell’evidenza della liquidità, nuovi strumenti, misteriosi, non spiegabili: materializza simboli di una determinata/indeterminata poesia come definita da Andrea Emo nel Quaderno 256 del 1963 all’interno del volume La voce incomparabile del silenzio. “Vive in ognuno di noi una determinata, o meglio una indeterminata poesia, che pochi riescono ad esprimere, ma che è un sentimento o meglio un’attualità assolutamente diversa, infinitamente nota, e infinitamente ignota, immediatamente presente e inaccessibile, una poesia che porta il nostro nome e che è l’evidenza stessa dell’altro, il puro altro da noi.” Il puro altro da noi: è nella cultura della relazione che l’essere umano postmoderno può apprendere e riacquisire quelle competenze relazionali, elementari e scontate ma dimenticate in favore dell’economia globale e della tecnologia avanzata, attraverso un atteggiamento comunicativo-relazionale di tipo assertivo, in un processo di crescita personale di attitudine all’ascolto, di disponibilità al dialogo. Nella cultura della relazione si possono riscoprire spazi e luoghi della città come elementi di interconnessione tra sfera pubblica e privata, nuove forme di appartenenza, innovative modalità di coabitazione che possano così diventare propulsori di “paesaggi culturali”. Il termine paesaggio culturale è stato coniato dal geografo tedesco Martin Schwind che, nel suo saggio Paesaggio culturale come spirito plasmato del 1964, osserva come ogni paesaggio sia il risultato della congiunzione di strati sovrapposti e successivi che si identificano con le forme prodotte nel presente, le forme prodotte nel passato ma viventi nel presente, le forme prodotte nel passato ma non più viventi e quelle forme del passato visibili solo nelle loro tracce. Per Schwind il paesaggio è un’opera d’arte plasmata da tutto un popolo, è il serbatoio profondo della sua cultura e reca l’impronta del suo spirito. Ogni paesaggio, dunque, è determinato dalla stratificazione di epoche e periodi storici diversi che si intrecciano, a volte si sovrascrivono e solo apparentemente si cancellano; racconta di memorie attraverso l’evidenza di impronte e segni, le reinterpreta, ne genera di nuove, le conserva e le riattiva secondo quel fenomeno semiotico del filtraggio trattato da Umberto Eco ne Dall’albero al labirinto. Salvatore Settis, nel suo intervento alla Camera dei Deputati “Diritto al paesaggio e generazioni future: Italia, Europa” durante la lezione inaugurale del concorso “Articolo 9 della Costituzione. Cittadini attivi per il paesaggio e l’ambiente” del 2015, prospetta un nuovo compito, una missione nuova per chiunque operi e gestisca i territori, i paesaggi e l’ambiente: conoscere intimamente il patrimonio culturale e paesaggistico, al fine di farlo conoscere a tutti i cittadini, in modo che ciascuno lo consideri come cosa propria, come appartenenza necessaria alla comunità di cui ciascun cittadino fa parte (e che la Costituzione chiama Nazione). In tal modo, il patrimonio culturale e il paesaggio diventano legante della comunità, garanzia di cittadinanza e strumento di eguaglianza fra i cittadini, dunque di democrazia. Secondo questa nuova missione, chiunque intervenga, con qualsiasi strumento, sul paesaggio è chiamato a conoscerlo, a rilevare le tracce dei luoghi, a riportare alla luce sedimenti nascosti, a fare emergere memorie personali e collettive per le generazioni presenti e future, a ricostruire l’identità storico-culturale impressa sul territorio dalle popolazioni e dalla società, a riconoscere caratteri e valori, sancendo, così, il “diritto al paesaggio” (come espresso dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea del Paesaggio). L’arte è, dunque, un viaggio di ricongiunzione e riconversione di fili interrotti attraverso le memorie, l’attualizzazione e riattivazione di nuove forme di appartenenza, è costruttrice di paesaggi di condivisione e partecipazione, capace di ricostituire quella comunità esistente ma apparentemente assente, muovendosi in sistemi di interscambio tra emozioni, sentimenti e  desideri, territori sparsi consapevoli del presente. 

Federico Ferrari, in una lettera a Tilda Swinton del novembre 2003, mette in evidenza che se l’arte ci parla sempre di una comunità, è perché è questa casa degli spiriti in cui le generazioni si danno del tu e si incontrano senza gerarchia, senza paura – anche se sono sempre in uno stato di spaesamento. L’arte è una lingua che non ha mai una misura comune. E in effetti è precisamente attraverso quest’estraneità, quest’incommensurabilità, che essa crea il comune, quel che è comune. L’arte non è il linguaggio comune: lo crea, è la creazione di un linguaggio. L’arte è questo linguaggio che non è di nessuno – il più solitario dei linguaggi – ma che ci mette in comune, che ci fa amare, che ci tocca e sconvolge la nostra solitudine, impedendole di diventare del solipsismo o dell’egoismo. L’arte: una comunità di solitudini; il comune che non vuole sopprimere la distanza, che non vuole ridurre tutto a una sola lingua; il comune che lascia venire, sovvenire, la parola dell’altro nel silenzio dei morti, squarciato dalle urla dei neonati. Il futuro del comune è in uno sguardo e in una prassi che a partire dal presente, dall’hic et nunc, di questa società e di quest’arte, sotto tanti aspetti disastrose, siano capaci di tracciare dei nuovi possibili. Bisogna che il comune resti comune. Bisogna che non sia soltanto una tradizione in cui alloggiare, ma che sia anche un’eredità, che come ogni eredità non è mai data, ma sempre da re-inventare. Bisogna non dimenticare, ma bisogna anche rilanciare il passato verso il suo avvenire. Bisogna amare i morti come si amano i neonati. Bisogna lasciarli vivere, senza proiettare in essi un’immagine predefinita. Ancora una volta, la comunità nell’arte spinge verso l’amore, e l’amore verso l’arte. Nella souvenance del comune dell’arte non vi è che l’amore e la forza dei suoi legami slegati.”

Affinché l’arte costruisca la comunità, occorre che porti una visione del futuro e affermi la continuità del passato, edificando un luogo dove poter sostare e dove poter spiccare il volo. Non basta che si configuri come arte partecipata, deve possedere quella vis che riesca a lasciare uno spazio di libertà e di necessità di porre domande senza dare la possibilità di trovare risposte. In tal modo diventa strumento di cambiamento e trasformazione dei significanti agendo attraverso quel linguaggio comune, nel quale tutti possano riconoscersi. In questo territorio di stratificazioni di tracce, in questo paesaggio culturale di condivisione e partecipazione ognuno può, in tal modo, trovare, la propria casa, in cui rimanere, anche per un solo giorno, in cui sperimentare la relazione dello sguardo e definire biografie territoriali che si fondano su microcosmi collettivi. Le comunità così costruite narrano storie dell’oggi che affondano le radici nei luoghi delle coscienze, strette al grembo di una rinascenza culturale ed esistenziale; riconquistano un passato comunitario disegnando dispositivi di memoria che preludono ad un futuro di speranza, ad una riappropriazione di processi dinamici di selezione che trasformano e rinnovano la realtà. 

La mia missione attraverso l’arte si concretizza in un impegno fattivo, visionario e realizzativo dei 17 obiettivi dell’Agenda 2030. In particolare lavoro per l’obiettivo 8. Lavoro dignitoso e crescita economica e per l’obiettivo 11. Città e comunità sostenibili, in qualità di curatrice, progettista culturale e ambasciatrice del Progetto Rebirth Terzo Paradiso di Cittadellarte Fondazione Pistoletto. Con il progetto del Festival del Tempo, arrivato alla quarta edizione, e con gli altri progetti culturali – tra i quali il progetto eXtramuros-eXtralap realizzato a Teramo nel corso di un intero anno – in una stretta simbiosi di pensiero e idee con diversi artisti, curatori e altri operatori culturali le cui nostre vite sono legate da tempo, definisco ogni giorno azioni e visioni che sono le gocce e i semi, i ponti e gli aquiloni. Il territorio in cui insieme ci muoviamo è impervio e denso di ostacoli, rappresentati principalmente dall’operare in contesti in cui noi postmoderni abbiamo scarsa conoscenza della storia antica, moderna e contemporanea e dobbiamo riapprendere e riacquisire quelle competenze relazionali che abbiamo dimenticato in favore dell’economia globale e della tecnologia avanzata, così come riconquistare la dimensione dello spirito e sviluppare l’universo dei sentimenti di fronte al dilagare delle emozioni subitanee e passeggere, in una sorta di bulimia esperienziale. 

È un lungo percorso, che deve avere il sapore della costanza e della continuità, della presenza e dell’accoglienza, dell’inclusione e del confronto. È un processo nel quale è necessario rimettere in discussione e cambiare la rotta in base agli incontri e agli scontri, alle distanze e alle vicinanze. Perchè nessuno ci passi mai accanto invano. Take care and live art è il motto che ho coniato per descrivere il mio agire: prendersi cura, educare alla bellezza, riconoscere le piccole comunità già esistenti e renderci coscienti e solidali attraverso lo strumento nuovo (e antico) dell’arte.  

28 luglio 2023
Roberta Melasecca

Relazione presentata al XXXIII SEMINARIO INTERNAZIONALE E PREMIO DI ARCHITETTURA E CULTURA URBANA DI CAMERINO: LA CURA DEI LUOGHI. Il bello … il buono, il brutto e il cattivo dell’architettura